Placebo in medicina equivale al nulla, una qualsiasi sostanza inerte. Il suo maggiore utilizzo è negli studi clinici, dove viene spesso adottato come metro di confronto per valutare l'efficacia di un nuovo farmaco. In effetti la maggior parte dei farmaci sono oggi testati in studi cosiddetti in doppio cieco verso placebo (senza che né i pazienti né il medico sappiano quali soggetti prendono il farmaco reale e quali assumono il placebo). Un recente editoriale sul New England Journal of Medicine invita a rivalutare il ruolo di questa sostanza che poi, forse, tanto inerte non è. Certamente nessun placebo potrà mai, ad esempio, ridurre la massa di un tumore, numerose ricerche hanno però provato che può alleviarne i sintomi. Ma come? Attraverso complessi meccanismi neurobiologici che comprendono l'azione di neurotrasmettitori come le endorfine, i cannabinoidi, la dopamina, e l'attivazione di alcune specifiche aree cerebrali. Il placebo non cura ma può dare sollievo attraverso meccanismi biopsicosociali che hanno anche a che fare con la forza del rapporto medico-paziente, l'inconscio e la comunicazione. Così come può anche far male, è il cosiddetto effetto nocebo: dal 4 al 26% dei pazienti che assumono placebo durante studi clinici lo interrompono a causa della comparsa di sintomi, altrimenti inspiegabili, riferiti come effetti collaterali.
Per queste ragioni oggi si sviluppano sperimentazioni che prevedono l'utilizzo di un “placebo onesto”, ovvero informando il paziente che si somministrerà qualcosa di inerte ma confidando che la cura, a prescindere dal contenuto farmacologico, possa in situazioni particolari essere di aiuto. Funzionerà? Vedremo, intanto il placebo è uscito dagli angusti confini dove la medicina l'aveva sinora relegato.
[Fonte: Scoperte - La Lettura pag. 8 - Corriere della Sera]